Cerca
Close this search box.

Vol. 19
XIX Concorso 1990
Il linguaggio cartografico, tecnico e amministrativo nella pianificazione urbanistica e territoriale
A cura di Urbano Cardarelli e Luigi Fusco Girard, A. Giuffré, Milano 1994

Volume XIX – XIX Concorso 1990. Il linguaggio cartografico, tecnico e amministrativo nella pianificazione urbanistica e territoriale, a cura di Urbano Cardarelli e Luigi Fusco Girard, A. Giuffré, Milano 1994.

L’urbanistica, che ai suoi albori veniva definita espressione della “alta cultura”, con l’evolversi delle tecniche si era “specializzata” e “confrontata” con altre scienze che avevano contribuito a definire l’attuale specifico disciplinare; queste scienze, nel tempo, avevano costituito un cocktail, spesso esplosivo, che, nell’insieme, costituiva il processo di Piano e, alla fine, il Piano stesso. Compito dell’urbanista, in ultima analisi, era diventato quello di dirigere un’orchestra in cui, ogni uno o due anni, si aggiungeva un nuovo strumento.

Economia, sociologia e medicina (quest’ultima nella sua specializzazione igienica) erano stati i primi strumenti che avevano affiancato l’originaria orchestra che si occupava di gestire le scelte localizzative ed i criteri di espansione di nuclei abitati e città (incrocio di assi portanti delle comunicazioni, luogo di mercato, disponibilità di materiali da costruzione nelle vicinanze, caratteristiche climatiche, ecc.). Geologia, idraulica, botanica, zoologia, chimica, e via dicendo, fino all’ultimo contributo della cibernetica, si erano aggiunte, negli anni, al corpus disciplinare originario.
Ognuna di queste scienze “esatte”, come ovvio, aveva elaborato un suo linguaggio con regole di comunicazione specifiche e con una coscienza del proprio sapere poco permeabile da parte delle altre discipline, innescando un processo evolutivo di sordità rispetto agli altri saperi. L’economista riusciva a dialogare in modo esauriente solo con l’economista, il sociologo con il sociologo, il geologo con il geologo e così via. Nonostante ciò, tutti riuscivano a comunicare con gli altri, seppure con difficoltà, nel naturale rispetto che ogni studioso ha dei contributi alla comprensione dei fenomeni complessi che altre branche scientifiche apportano; tutti, tranne l’esperto di cibernetica. Questi, infatti, riusciva a mala pena a confrontarsi all’interno del proprio ambito disciplinare, non riuscendo a trovare interlocutori non solo validi, ma neanche in grado di comprendere i termini del suo specifico linguaggio tecnico.
Eppure era già evidente che, nel volgere di pochi anni, il linguaggio cibernetico avrebbe stravolto il mondo aprendo nuove ed affascinanti possibilità di comunicazione; era infatti a tutti chiaro che questo linguaggio avrebbe rivoluzionato il modo di comunicare ed agire dell’uomo, dando il via a quella che, in un rapporto del 1999 l’Amministrazione Federale americana avrebbe definito come la “emerging digital economy”, che (dal rapporto, fra l’altro, si evince che già nel 1997 l’information technology aveva prodotto il 27% della crescita economica reale americana, ovvero molto più di tutta la crescita avutasi in Italia nello stesso anno).
La cibernetica e la tecnologia digitale avrebbero stravolto il mondo ed anche il modo di studiare, di comunicare e di operare dell’urbanistica. Occorreva prima di tutto, e molto velocemente, recuperare una più generale visione di sintesi in una complessa integrazione dei saperi; occorreva inoltre sviluppare una capacità di coordinamento e di dialogo che dovevano partire da un linguaggio quanto più possibile unitario con cui iniziare ad edificare la nuova torre di Babele dell’informazione globale (oggi si direbbe “in rete”). Era necessario tornare alle origini, ritrovare la valenza strumentale del segno grafico in un significato che “è altro da se” unificando i “segni” e le parole secondo un preciso “codice” interpretativo; ridefinire una chiave di lettura ed un linguaggio universali ed universalizzabili per la definizione grafica ed amministrativa di una scienza multidisciplinare quale era diventata l’urbanistica.

La “città cablata” (forse in un futuro molto prossimo venturo “satellitata”) era già una realtà e stava contribuendo, in maniera sempre più veloce, al mutamento di quella cultura che aveva prodotto la civiltà dei consumi, generatrice del degrado urbano di cui ognuno era testimone impotente.
“La città cablata non è una città nella quale le trasformazioni seguono casualità e logica additiva, obbedendo alla cultura dell’espansione; la città cablata è una città in cui il progresso tecnologico contribuisce a elevare la qualità della vita ed a usare correttamente le risorse disponibili e non rinnovabili.” (Dal saggio introduttivo di Corrado Beguinot al volume “Da Megaride ’94 a Habitat II – Degrado Urbano e Città Cablata”, Napoli, 1995).
L’informazione e l’information technology, erano la base fondamentale del nuovo processo di sviluppo urbano che avrebbe portato a definire il modello insediativo del terzo millennio. Il nuovo supporto informativo era pronto, o quanto meno si andava sviluppando più velocemente di quanto ognuno potesse pensare e seguirne l’evoluzione, ed era di natura mondiale.

In urbanistica il linguaggio, dal punto di vista sia grafico che tecnico-amministrativo, continuava ad essere di natura locale. Il retaggio del passato era forte e legato ai vari “supporti” materiali che si erano susseguiti nel tempo. Dalla pelle essiccata alla pergamena, dalla foglia di palma a quella di papiro, dalla lastra di marmo a quella di pietra, dal rame al legno, dall’avorio all’argilla per finire alla carta, tutti supporti che avevano contribuito all’evoluzione culturale dell’uomo, ma che ne avevano anche limitato l’attività per micro o macro regioni (a seconda della diffusione e della vastità del sistema amministrativo di riferimento) e per scienze linguisticamente autonome ed a se stanti.

Il supporto planetario era pronto. Occorreva adeguarvi il linguaggio ed a questo fine era orientato il tema del diciannovesimo Concorso Nazionale monografico indetto dalla Fondazione.